COMUNICAMENTE: LA PUBBLICITA’, OGGI: DAL PURCHE’ SE NE PARLI AL PURCHE’ FOMENTI DISCUSSIONE
LA PUBBLICITA', OGGI: DAL PURCHE' SE NE PARLI AL PURCHE' FOMENTI DISCUSSIONE
La pubblicità, a partire dalla rivoluzione industriale e con la diffusione dei beni di consumo, è passata dallo scopo informativo a quello persuasivo. Attirare l’attenzione è dunque la primaria necessità, ma oggi il “purché se parli” è superato: siamo nell’epoca della viralità e del “purché fomenti discussione”, dove la quantità delle interazioni è più importante della qualità del messaggio.
No, in questo articolo non parleremo di pesche: se n’è già parlato troppo. E nemmeno di genitori separati, del conseguente disagio dei figli o della sua strumentalizzazione a scopo pubblicitario. Obiettivamente, ne abbiamo abbastanza.
Parleremo invece di come oggi la pubblicità abbia superato il concetto del purché se ne parli per giungere invece al concetto del purché fomenti discussione, ovvero crei interazioni, spesso dimenticandosi del buon gusto (sebbene non sia questo il caso di Esselunga).
L'AIDA di St. Elmo Lewis
Non è un errore: non stiamo parlando della celeberrima opera di Verdi, ma dello schema formulato da St. Elmo Lewis nel 1898 per indicare le necessità di un’azione di vendita affinché sia efficace. AIDA era dunque l’acronimo degli step della formula, dove la A stava per “Attirare l’attenzione del consumatore”, a cui seguiva “suscitare il suo Interesse per il prodotto”, “stimolare il suo Desiderio di possederlo o consumarlo” per indurre all’“Azione concreta di acquisto”.
Attirare l’attenzione del consumatore è dunque la prima leva di ogni comunicazione pubblicitaria, quantomeno da quando la comunicazione pubblicitaria, nella seconda metà dell’Ottocento, dopo la rivoluzione industriale, diventò strumento fondamentale per la vendita dei beni di consumo che proprio in quegli anni cominciavano a essere disponibili per una fetta sempre più larga di popolazione. La pubblicità iniziava ad andare a braccetto con le tecniche della persuasione.
Prima di allora, infatti, dai primordi della pubblicità – la cui origine leggendaria viene fatta risalire addirittura al tessitore Hapù dell’antica Tebe – fino a metà dell’Ottocento la comunicazione era più che altro legata al concetto di informazione: si doveva informare con precisione e offrire una reason why, un “perché acquistarlo” o “perché affidarsi a quella persona/azienda”.
E’ in un secondo momento che entra in gioco l’aspetto emotivo, raggiunto di volta in volta con la simpatia, l’umorismo, i sentimenti, la potenza dell’immagine o del testo. In una parola, l’impatto.
L'impatto pubblicitario
Raymond Rubicam (1892-1978), fondatore insieme a Young nel 1923 dell’agenzia che è tuttora una delle più prestigiose al mondo, nel 1930 pubblicò in favore della sua azienda una serie di dodici messaggi. Tra questi vi era un annuncio che mostrava il volto deformato di un pugile colpito dal pugno di un avversario senza guanti e la scritta “IMPATTO”, seguita dalle definizioni del vocabolario e secondo la Young & Rubicam: “la qualità di un annuncio che colpisce improvvisamente l’indifferenza del lettore e incita la sua mente a ricevere il messaggio di vendita”. Da quel momento la parola “impatto” entrò a far parte del gergo pubblicitario.
Il ricercatore Daniel Starch (1883-1979) propose invece un test di efficacia degli annunci pubblicitari in cui al punto 1 vi era “l’essere stati visti”, a seguire “essere stati letti”, “essere stati creduti”, “essere ricordati” e infine “indurre all’azione”.
Ecco che “l’impatto” del messaggio diventava, a partire dalla metà del Novecento, fondamentale per “essere visti” e “attirare l’attenzione”.
Purché se ne parli
Un detto piuttosto celebre afferma: “non esiste la buona e la cattiva pubblicità, esiste solo la pubblicità”, che va di pari passo col ben più popolare “purché se ne parli”. Nell’abbondanza di beni di consumo verificatasi nella seconda metà del Novecento diventa ancora più importante riuscire a emergere, e quei concetti di “impatto”, “attirare l’attenzione” e “essere visti” assumono ancora più importanza e vengono perseguiti a ogni costo.
L’awarness – come ben spiega Gianluca Diegoli di Minimarketing.it – ha a che fare con la conoscenza. Il consumatore deve conoscere il prodotto o, in misura sempre crescente, il brand, per poterli scegliere. E qui entra in gioco il problema della qualità, connesso al concetto di brand reputation.
Fino a pochi decenni fa, la qualità era un aspetto fondamentale della comunicazione pubblicitaria, che, nella prima parte del Novecento, si configurava addirittura come arte (pensiamo a quanti manifesti sono stati realizzati dai futuristi italiani). Oggi, invece, la qualità sembra non essere più un aspetto decisivo, o quantomeno rappresenta un obiettivo secondario rispetto a quello dello scalpore e della quantità, sia in riferimento alla ripetizione del messaggio, sia, e soprattutto, in relazione alle interazioni create. Ecco che dal purché se ne parli, si sta passando al purché fomenti discussione.
Purché fomenti discussione, in nome della viralità
Purché sia sulla bocca di tutti, e in nome della viralità, la tendenza sembra oggi essere quella di realizzare campagne pubblicitarie volutamente divisive, il cui obiettivo è fomentare discussioni – e quindi interazioni su ogni canale e strumento mediatico – ancor prima del messaggio stesso o della vendita del prodotto o brand. Il che porta in talune occasioni alla perdita del buon gusto (pensiamo al preservativo gigante srotolato sull’obelisco di Buenos Aires per la nuova stagione Netflix di Sex Education), al trash o alla svalutazione del prodotto stesso (fa scuola il caso della Venere influencer – ne abbiamo parlato qui), fino alla perdita di vista del messaggio pubblicitario stesso: lo storytelling – non ancora finito? – della pesca, sebbene di qualità, cosa ci dice di Esselunga e dei suoi prodotti? Davvero ci spinge in direzione di quella catena piuttosto che altre? Difficile.
Probabilmente rientra più nell’obiettivo di awarness, ma se nel caso di Esselunga, al di là delle polemiche (ricercate?), la reputazione del brand non viene minimamente scalfita, anzi, in altri casi invece può subire pesanti scossoni, forse deleteri sul lungo periodo.
E qui arriviamo allora all’interrogativo finale: davvero oggi la qualità dell’opinione sul prodotto o sul brand diventa meno importante della quantità delle opinioni stesse?
E’ giusto che chi si occupa di pubblicità persegua il fine senza occuparsi – nelle diverse occasioni – della qualità, del buon gusto, del rispetto, in un circolo vizioso al ribasso che comprende tutti, dalle aziende ai consumatori?
No, non vogliamo crederci. Non vogliamo accettarlo.
Vogliamo che la pubblicità rimanga quello che è sempre stato: comunicazione, promozione, persuasione, stimolo all’acquisto.
Non catalizzatore di mere interazioni o attivatore di scontri o dibattiti.