RUBRICULT: IL CATTIVO POETA
L'ULTIMA BATTAGLIA DI D'ANNUNZIO
Ne Il cattivo poeta assistiamo alla fase finale della vita del Vate: nell’autoimposto isolamento al Vittoriale, il poeta comprende il destino a cui Mussolini sta condannando l’Italia tentando, invano, di impedirlo.
La figura di D’Annunzio è sempre stata celebrata come una personalità impavida e ardita, dedita ad una sfrenata vita mondana, immersa nei piaceri della lussuria. L’esteta per eccellenza, nel costante perseguimento dell’esistenza inimitabile costellata di esperienze estreme. La fedeltà a questi dettami è racchiusa nel celebre aforisma Memento audere semper, ancora oggi presente al Vittoriale.
Una figura assai centrale della cultura italiana del Novecento – tra arte, letteratura, Storia e politica – che, all’interno di RubriCULT, abbiamo già affrontato parlando di teatro (leggi l’articolo “Qui rido io e il connubio tra attore e maschera teatrale“).
Il cattivo poeta, stanco e ai margini
Il ritratto che Il cattivo poeta ci offre non potrebbe essere più lontano da tutto questo. Siamo nel 1936: il Vate, interpretato da Sergio Castellitto, appare vecchio, stanco, ai margini della vita politica: vive tra il ricordo nostalgico delle imprese di un tempo e la lucida consapevolezza della deriva del movimento fascista.
A questo ritratto contribuisce la scelta del regista Jodice di non impostare la pellicola in maniera biografica, ma lasciando il poeta leggermente ai margini. Il vero protagonista è, infatti, il giovane Giovanni Comini, appena nominato Federale di Brescia, al quale viene affidata la delicata missione di sorvegliare discretamente il sommo poeta.
In quel periodo, infatti, il regime considerava D’Annunzio un personaggio scomodo e pericoloso. Ufficialmente osannato dal regime per le sue imprese militari e la vicinanza con gli ideali patriottici del movimento fascista, arriverà a esprimere giudizi negativi all’alleanza del Duce con la Germania hitleriana. Il rapporto con Mussolini, già incrinato dopo la fine dell’esperienza di Fiume, si deteriora definitivamente.
Il Vittoriale: una prigione dorata
D’Annunzio ha da anni eletto a propria dimora un meraviglioso complesso di edifici, giardini e corsi d’acqua affacciato sul Lago di Garda. Il Vittoriale è un vero e proprio museo a cielo aperto: vi trovano posto persino una nave e un aereo militari, testimoni ancora oggi delle valorose imprese militari compiute durante la Grande Guerra contro il nemico austro-ungarico.
Fu lo stesso partito fascista a finanziare buona parte dei lavori, nel tentativo di accontentare il Vate relegandolo lontano dalla vita politica. Del resto “D’Annunzio è come un dente guasto: o lo si ricopre d’oro o lo si estirpa!”.
Il Vittoriale, paradossalmente, da luogo bucolico di celebrazione del trionfo finisce per diventare una sorta di esilio forzato per il letterato. La sua personale prigione d’oro, dalla quale non riesce più a far sentire la propria svigorita, sebbene lucida, voce.
Il momento della disillusione
Durante la narrazione della pellicola, lo spettatore è testimone del diffondersi di un sentimento di disinganno. Il movimento fascista, che per anni aveva illuso il popolo con discorsi di fervente patriottismo, inizia a svelare la propria natura*.
Il protagonista stesso progressivamente si accorge di come abbia sempre messo a tacere i propri dubbi confidando nella bontà degli ideali del regime. Questo fino al momento in cui la deriva si manifesta in tutta la sua brutalità.
Se, agli albori, anche D’Annunzio era rimasto affascinato delle idee di Mussolini, durante gli ultimi anni della sua vita sembra profetizzare la rovina verso cui l’Italia verrà trascinata. Questa volta, senza poterla difendere: un amaro e beffardo Vate-cinio, per così dire.
*Relativamente alla disillusione del popolo nei confronti del fascismo, puoi fare un confronto con il film La marcia su Roma di Dino Risi.