UNA FRASE, UNA RIFLESSIONE: FINCHE’ C’E’ GUERRA C’E’ SPERANZA

FINCHE' C'E' GUERRA C'E' SPERANZA: PERCHE' I CONFLITTI "CI FREGANO"

Nella più celebre sequenza di Finchè c’è guerra c’è speranza Sordi avanza una riflessione sulle necessità della guerra e chiama in causa direttamente tutti noi, oggi ancora più di allora.

Finché c’è guerra c’è speranza – film del 1974 diretto e interpretato da Alberto Sordi – si conclude con una sequenza talmente celebre che non crediamo, parlandone, di svelare particolari sorprese o di rovinare la visione di chi non dovesse conoscere la pellicola (in ogni caso, attenzione! Nell’articolo viene svelata l’intera trama). Perché il senso dell’intero film sta in quell’indimenticabile finale, che coinvolge tutti i personaggi e chiama in causa direttamente anche gli spettatori.

Pietro Chiocca (Sordi), ex venditore di pompe idrauliche convertitosi alla ben più redditizia attività di commerciante internazionale d’armi, viaggia per i Paesi del Terzo Mondo nei quali le guerre civili richiedono un costante acquisto di materiale bellico. Tramite alcune furbizie riesce a prevalere sul concorrente spagnolo e ad essere assunto da un’azienda più importante, il che gli permetterà di acquistare la casa dei sogni della propria famiglia. Tuttavia, un giornalista che gli aveva permesso di avvicinarsi a un movimento di liberazione nazionale pubblica un reportage che lo indica in prima pagina come “mercante di morte”. Di fronte all’indignazione della famiglia che, nel completo agio in cui vive, critica l’attività dell’uomo, Pietro si dichiara disponibile a cambiare vita ed esplode nella celebre accusa:

Non ho nessun risentimento per quello che mi avete detto […] Posso anche cambiare mestiere, sì. Io mi rimetto a vendere le pompe idrauliche, che è un articolo semplice, pacifico e socialmente utile. Le mie 300.000 – 400.000 lire al mese le guadagno di sicuro, ed è una cifra con la quale una famiglia può anche vivere decorosamente se si pensa che un terzo del mondo ha un reddito pro capite di 30 mila lire l’anno. Ma non come voi. Non come abbiamo vissuto noi fino ad ora. No! Non ti pare, cara Silvia? E anche voi, miei cari ragazzi? E tu, caro zio, che viaggi sempre e solo con la Jaguar? E tu, cara suocera, che a 70 anni […] ti fai una dentiera smontabile di 3 milioni e mezzo? Perché vedete, le guerre non le fanno solo i fabbricanti d’armi e i commessi viaggiatori che le vendono, ma anche le persone come voi, le famiglie come la vostra, che vogliono, vogliono, vogliono e non si accontentano mai: le ville, le macchine, le moto, le feste, il cavallo, gli anellini, i braccialetti, le pellicce e tutti i cazzi che ve se fregano! Costano molto! E per procurarseli, qualcuno bisogna depredare, ecco perché si fanno le guerre!”.

Va dunque a coricarsi, dando la possibilità ai famigliari di scegliere: nel caso accettino la sua attività di commerciante d’armi, dovranno svegliarlo in tempo per intraprendere l’ennesimo viaggio e non perdere l’aereo; viceversa, lo potranno lasciare dormire tranquillamente.

Cosa sceglieranno?

Quell’elenco di sfizi culminante nei “cazzi che ve se fregano” chiama in causa tutti – personaggi e spettatori – e trasmette un messaggio chiaro: la guerra siamo tutti noi.

Finché c’è guerra c’è speranza è un titolo in perfetto stile “commedia all’italiana”, ovvero quel filone affermatosi tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’80 e caratterizzato da commedie brillanti ma attente ai risvolti sociali e condite da punte di amarezza (per una sintetica ma ottima descrizione del filone leggi questo articolo de La Stampa, scritto nel 2010 in seguito alla morte d Monicelli). Alla consueta frase “finché c’è vita c’è speranza”, si sostituisce la parola “vita” con “guerra”, paradossalmente il suo opposto, eppure un senso c’è.

La guerra, infatti, provoca certo la morte per chi la combatte e per chi ne subisce le conseguenze – dirette o indirette –, ma rappresenta allo stesso tempo la vita (intesa come guadagno) per tutti coloro che sugli affari di guerra lucrano.

Chi sono, è chiaro a tutti: in primis le lobby delle armi, tra fabbricanti e venditori – il cosiddetto “business delle armi”; a un secondo livello, gli Stati con le loro mire economiche; al terzo, infine, noi, con i “cazzi che ci fregano” e con le nostre azioni – o non azioni – quotidiane.

Al di là del mantenimento del – sempre più sottile – benessere, fatto di tutti quegli ammennicoli più o meno importanti elencati da Sordi, probabilmente è l’indifferenza a renderci complici dei conflitti e delle morti che essi causano.

È l’abitudine ai conflitti, l’accettazione di ossimori come “guerra di pace” o “armi per la pace”, è la rassegnazione alla crescente impotenza nei confronti delle decisioni dei governi a renderci complici delle guerre.

Ecco perché quella scena di Finché c’è guerra c’è speranza riguarda tutti noi, che possiamo a questo punto sentirci assolti, colpevoli o decisivi.

Assolti, se crediamo che i fatti di guerra non dipendano in alcuna maniera da noi oppure se, con troppa semplicità, ci schieriamo tra coloro che consideriamo “i giusti”. Tornano in mente a questo proposito le parole de “La canzone del maggio” di De Andrè che ammoniva che “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti” (se vuoi conoscere qualcosa in più su De Andrè, leggi il nostro articolo sul film “Principe Libero”).

Colpevoli, o quantomeno corresponsabili, se maturiamo almeno la consapevolezza di non essere al di fuori delle dinamiche dei conflitti.

Decisivi, infine, se prendiamo coscienza delle nostre possibilità. Non potremo mai, come singoli individui, cambiare i destini del mondo. Però possiamo cominciare a rifiutare la guerra e a non praticarla nella nostra quotidianità.

Per esempio, agendo sempre nel rispetto dell’altro e non nel suo continuo tentativo di prevaricazione.

Possiamo partire da qui, e questo sì che “ci dovrebbe fregare”.