CONSIGLI PUBBLICINEMARI: LA RABBIA DI PASOLINI
LA RABBIA DI PASOLINI: UNA SPERIMENTAZIONE ANTICONFORMISTA
Nonostante si tratti di un film minore, quasi dimenticato, di Pasolini, La rabbia rappresenta un esperimento cinematografico assai interessante, tra cronaca storico-giornalistica e lettura poetica delle immagini.
Cos’è la rabbia per Pier Paolo Pasolini? O meglio, qual è la rabbia che l’artista intende indagare nell’omonimo film?
La risposta non è affatto facile. Proveremo a fornirla, ma prima bisogna fare un passo indietro e raccontare la genesi de La rabbia, perché, nonostante rientri tra i film “dimenticati”, è incredibilmente interessante, anche in relazione alle modalità con cui è stato distribuito negli ultimi decenni.
La genesi
L’idea originaria del film appartiene a Gastone Ferranti, che nel ’62 intende realizzare un film su un marziano che arriva sulla Terra utilizzando il materiale di repertorio del proprio cinegiornale “Mondo Libero”. Coinvolge nel progetto Pasolini, che passa così in rassegna novantamila metri di pellicola e realizza la prima versione del film, in cui scompare l’idea del marziano. Probabilmente non apprezzata totalmente dal punto vista ideologico da Ferranti, questi decide il taglio di una parte della pellicola e affianca a Pasolini Giovannino Guareschi – lo scrittore e ideatore dei personaggi di Don Camillo e Peppone – cui affida la seconda parte del film. L’obiettivo diventa quindi la realizzazione di una sorta di duello intellettuale attorno ai documenti del cinegiornale, che dovevano pertanto essere “visti da destra e visti da sinistra” e rispondere alla domanda:
“Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”.
Il film viene quindi distribuito nell’aprile del ’63, ma dopo pochi giorni viene ritirato, forse per i timori di Ferranti che le idee espresse da Guareschi potessero procurargli problemi. Da lì, il film viene dimenticato. La parte di Pasolini sopravvive in più che sporadiche proiezioni, quella di Guareschi addirittura scompare dai radar.
La rabbia di Pasolini viene riscoperto decenni dopo, nel 2007, quando viene restaurato dalla cineteca di Bologna e proiettato al cinema di Roma. Nel 2008 Bertolucci presenta alla Mostra di Venezia la versione originale di Pasolini comprensiva delle scene che erano state tagliate per far posto al film di Guareschi.
L’anno seguente torna a essere proiettato anche il film di Guareschi, che tuttavia con difficoltà esce dalla dimensione dell’invisibilità.
“Un giornale cinematografico in rime”
La scarsa fortuna del film del ’63 fu dettata anche dal carattere sperimentale della pellicola, che probabilmente ostacolò la ricezione da parte del pubblico, financo quello più intellettuale. Lo stesso Moravia scrisse che il film sarebbe dovuto essere «più semplice, più diretto, più razionale, meno letterario». Lo scrittore centra il punto. La staticità delle immagini di repertorio e artistiche (per esempio i dipinti di Guttuso, anche voce recitativa), unita all’ambizione poetico-letteraria di Pasolini di trasformare le immagini di cronaca in saggio ideologico, non agevolava affatto – e non agevola ancora oggi – la ricezione dell’opera.
Scriveva Pasolini:
“Attratto da queste immagini ho pensato di farne un film, a patto di poterlo commentare con dei versi. La mia ambizione è stata quella di inventare un nuovo genere cinematografico. Fare un saggio ideologico e poetico con delle sequenze nuove.”
Nella sua costante ricerca di nuove forme espressive e artistiche, Pasolini era approdato da poco alla settima arte (aveva girato Accattone, Mamma Roma e La ricotta) e con La rabbia intravide la possibilità di esplorare una nuova forma cinematografica, che Maurizio Luciani definì ottimamente come “giornale cinematografico in rime” e più di recente Maria Rizzarelli come “montaggio di poesia” (trovi qui l’articolo, senza dubbio una delle analisi più complete del film).
In quei novantamila metri di pellicola dei cinegiornali che aveva visionato, Pasolini era riuscito a cogliere frammenti di bellezza e di poesia, che si incrociavano con la Storia.
La bellezza e l'orrore
La pellicola passa in rassegna avvenimenti storici e di costume degli anni Cinquanta e Sessanta, dall’Italia all’Inghilterra, da Cuba alla Russia, focalizzando l’attenzione sulle tendenze emergenti dell’industrializzazione, della “ferocia della borghesia”, della lotta di classe, della spinta rivoluzionaria, del consumismo, della guerra.
E se fino a qualche anno fa quelle immagini potevano appartenere a un passato archiviato, oggi si ripropongono nel pieno della loro attualità. La Storia non è mai passata.
In tutto ciò, emergono delle immagini di bellezza. Tra tutte, la sequenza relativa a Marilyn Monroe, simbolo e metafora della bellezza e di un periodo storico apparentemente solare, florido, prosperoso, ma che cela sotto la superficie i germi nascosti e mai superati del “male del mondo”. Le immagini che Pasolini accosta al sorriso dell’attrice sono quelle relative alle esplosioni atomiche. C’è un senso di angoscia e di morte che pervade la pellicola, anche nelle immagini più felici. È lo stesso senso di morte presente nei suoi film precedenti, a partire da Accattone. Ecco la scontentezza, ecco la paura, ecco la rabbia. Ma c’è di più.
Da Socrate ai mass media
Al termine del film, Bertolucci inserisce un’intervista a Pasolini in cui parla della sua rabbia come “non catalogabile”, assimilabile a quella di Socrate:
“Per me l’arrabbiato ideale, il meraviglioso arrabbiato della tradizione è Socrate. Credo che non ci sia caso di rabbia più sublime di questo, e tuttavia la società ateniese era a suo modo sublime. C’erano comunque in società i Meleto che accusavano ingiustamente Socrate in nome del conformismo del tempo. E Socrate ha risposto a tutto questo in quel modo che si sa, senza tuttavia essere rivoluzionario, ma restando semplicemente quello che oggi si chiama un arrabbiato.”
Siamo arrivati al dunque: il conformismo, pesante fardello per l’intellettualismo libero e indipendente. Il conformismo, il consumismo, la guerra, l’angoscia, ai tempi di Pasolini – e ai nostri ancora di più – sono potenziati da uno strumento pericoloso: i mezzi di comunicazione di massa. Trai paradossi come la “libertà gridata con disprezzo, con odio” e la presenza costante della guerra “terrore che non vuole finire”, trova posto una ferocia critica alla televisione, nuovo strumento delle masse. Afferma Pasolini: “una nuova arma è stata inventata, per la diffusione dell’insincerità, della menzogna […]. Sperimentano modi per dividere la verità e per porgere la mezza verità che rimane attraverso l’unica voce che ha la borghesia per parlare”.
Eccola forse, la rabbia. La rabbia scaturita dalla guerra, dalla violenza mai sopita, dalla borghesia, dalla lotta di classe, dall’arma della televisione, dall’espressione delle “mezze verità”. Lì risiede la rabbia. Lì risiede la scontentezza.
A sessant’anni di distanza, il suo ragionamento non può che risultare quanto mai contemporaneo.
Eppure c’è un paradosso finale, che allo stesso tempo conferma il suo ragionamento. Se è vero che i mass media dividono la verità e diffondono le mezze verità, la domanda che ci poniamo è: è stato giusto oscurare la verità di Guareschi come è stato fatto?
Probabilmente no, e probabilmente non lo avrebbe condiviso nemmeno Pasolini.
Ma anche il cinema è un mass media, e nel caso de La rabbia ha diviso la verità, mostrandocene una parte.
Pasolini, al sorgere del mezzo televisivo, aveva centrato subito la questione.