COMUNICAMENTE: DAI “GRANDI ELETTORI” AL “VENTI VENTIDUE”: UNA QUESTIONE D’IDENTITA’
DAI "GRANDI ELETTORI" AL "VENTI VENTIDUE": UNA QUESTIONE D'IDENTITA'
Il mantenimento delle tradizioni culturali passa anche dall’uso della lingua: ecco perché è importante “rimanere italiani” e non voler “fare gli americani” nel parlare comune.
L’identità è una questione seria, e dipende anche dal linguaggio e dai termini che usiamo. La prepotente invasione delle parole inglesi nel vocabolario italiano è una tendenza in atto da anni: una tendenza di cui ci accorgiamo e che, nonostante a volte ci infastidisca anche un po’, non freniamo affatto. Anzi, spinti dalla consuetudine, alimentiamo sempre di più questa (mala)usanza, preferendo una parola inglese al posto di una italiana del tutto corrispondente. Così usiamo sempre “brand” e non “marca”, “business” anziché “affari”, “make up” anziché “trucco”, “trend” al posto di “tendenza”, “keyword” e non “frase-chiave”, e potremmo continuare per centinaia di termini.
Ma al di là della diffusione delle parole inglesi nel linguaggio scritto e verbale italiano, in questo articolo puntiamo l’attenzione sulla tendenza, meno percepibile ma ugualmente minacciosa per l’identità culturale italiana, a usare parole sì italiane, ma le cui modalità d’uso e significato nulla hanno a che vedere con le nostre tradizioni.
Facciamo allora due esempi semplici quanto attuali.
Poche settimane fa abbiamo assistito all’elezione (anzi, ri-elezione) del Presidente della Repubblica italiana. Ebbene, chi ha preso parte alle votazioni? Tutti risponderemmo… “i grandi elettori”!
E lo faremmo perché così abbiamo sentito e letto ovunque: dai tg ai giornali, dai social alle trasmissioni politiche. Eppure la parola “grandi elettori”, non solo non veniva usata fino a qualche anno fa, ma non si riscontra neanche in alcun ordinamento legislativo italiano! Stando all’articolo 83 della Costituzione, il Presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento “in seduta comune dei suoi membri” e da “tre delegati per ogni Regione” (salvo la Valle d’Aosta, uno). I “votanti”, dunque, sono i “membri del Parlamento”, i parlamentari, i delegati regionali, che in una parola possono certamente essere indicati come “elettori”, mentre la locuzione “grandi elettori” non ha alcun fondamento.
Sicuramente non ha alcuna portata culturale italiana. Il termine “grandi elettori” viene usato nel Medioevo, in terra germanica, per indicare i principi elettori del Re dei Romani e, dal 1356, dell’imperatore del Sacro Romano Impero (sebbene il termine originario Kurfursten sia propriamente traducibile con “elettori” o “principi elettori”).
In epoca più recente, il termine “grandi elettori” diventa chiaramente la locuzione classica per indicare i rappresentanti politici americani, che eleggeranno poi il Presidente. Sebbene anche in questo caso il termine non sia propriamente corretto – in quanto i delegati del collegio elettorale americano sono definiti semplicemente come “electors” – si tratta di un’espressione che negli anni è stata usata per indicare il sistema di votazione americano, completamente differente dal nostro.
È dunque evidente che parlare di “grandi elettori” per l’Italia sia improprio.
Se poi aggiungiamo formule come “kingmaker” – che ha un senso storico per l’Inghilterra del Quattrocento (fu usato per Richard Neville, conte di Warwick), ma nullo in epoca contemporanea – per parlare di influenza politica, l’inappropriatezza diventa assurdità.
Ma la nostra paradossale ambizione di voler “fare gli americani” – come già raccontavano Carosone o Sordi con le rispettive arti – si rivela anche in altri usi linguistici. Pensiamo agli anni che stiamo vivendo.
Quante volte abbiamo sentito dire “Venti Ventuno”, o sentiamo ora “Venti Ventidue”, o ancora “Venti Ventisei” parlando delle prossime Olimpiadi invernali che si terranno in Italia? Molto spesso. E se questa modalità poteva anche essere accettabile per il 2020, data la particolarità del numero ripetuto (Venti Venti), per gli anni che stiamo vivendo diventa assurda. Pensando al secolo scorso, quando pensiamo alle rivolte studentesche parliamo di “Diciannove Sessantotto”? E Tangentopoli è stato nel “Diciannove Novantadue”? L’ultima Coppa del Mondo di calcio è stata vinta dall’Italia nel “Venti ZeroSei”?
Certo che no.
È dunque evidente come la tendenza a parlare di “Venti Ventidue” anziché di “Duemilaventidue” sia un improprio tentativo di replicare l’usanza linguistica americana.
E allora la domanda è: perché?
Abbiamo proprio bisogno di uniformarci a modalità di linguaggio che non ci appartengono?
Quali vantaggi comunicativi ci porta?
Nessuno.
Semmai corriamo il rischio di un’ulteriore dispersione della nostra identità.
Perché è anche, e forse soprattutto, dal mantenimento delle nostre tradizioni – da quelle culturali a quelle linguistiche, da quelle artistiche a quelle lavorative – che passa l’affermazione e la valorizzazione della nostra essenza.
Viviamo in un mondo globalizzato, vero, ma questo non vuol dire che deve essere per forza un mondo uniformato, in cui si assottigliano le differenze tra i Paesi e si appiattiscono i caratteri nazionali. E invece è questo che, piano piano, quasi impercettibilmente, sta avvenendo.
Siamo italiani, con tutti i pregi e i difetti: ci distinguiamo per i nostri prodotti di qualità, per i grandi marchi come per le piccole aziende, per l’artigianalità, il buon cibo, la creatività, le genialità, parliamo la lingua “del sì”, forse la più bella del mondo per la sua ricchezza. E stiamo lentamente, ma inesorabilmente, perdendo tutto, con naturalezza e drammatica normalità, quasi impotenti.
Per questo è necessario mantenere le nostre tradizioni, anche linguistiche, anche nel parlato comune. Quest’anno, dunque, meglio parlare di “Duemilaventidue”; quando si rivoterà per il Presidente della Repubblica, parleremo di “elettori”, e così via.
Anche così rimaniamo italiani.